LONG KESH. APERTO AL PUBBLICO CIÒ CHE RIMANE DELL’INFERNO DEGLI H-BLOCKS

Lunedì i primi tours dei resti della prigione di Long Kesh, ribattezzata HM Prison Maze, uno dei più dolorosi simboli dei Troubles. Sono ancora in piedi solo il braccio H-6, ala lealista, la cappella e l’ospedale della prigione, divenuto tristemente famoso durante il tragico hungerstrike del 1981.
Riportiamo di seguito l’esperienza di una giornalista della BBC che ha avuto accesso esclusivo al primo tour del giorno.

Traduzione a cura di Elena Chiorino

“Ero in un gruppo misto con persone di ogni età e formazione, e non avevamo idea di cosa aspettarci. La prima tappa è stata il braccio H-6 – dove nel 1997 è stato ucciso il leader della Loyalist Volunteer Force (LVF), Billy Wright – e per molti è stata un’esperienza carica di emozione, come una donna, madre di cinque figli, il cui marito è stato internato. Mentre percorrevamo i corridoi, lei è entrata nella cabina telefonica, ha sollevato la cornetta del telefono pubblico e ha chiuso gli occhi, forse immaginando come fosse trovarsi dall’altra parte nel ricevere una di quelle telefonate, così tanto tempo fa.
Quando siamo entrati nella cappella ci siamo resi conto che, a differenza di molte altre zone, è rimasta pressoché intatta, dalle pareti in legno alle file di sedie al pianoforte nell’angolo.
Si suppone che si trattasse di un luogo un po’ più felice, dove trovare conforto e rifugiarsi nella fede – da una prospettiva più cinica, un luogo per incontrare i compagni e scambiarsi messaggi. Ma rappresentava anche una possibilità di ricordare il corso della vita fuori dal carcere: durante gli anni, vi sono stati celebrati alcuni matrimoni e battesimi, ricongiungendo brevemente i prigionieri ai loro cari.
Uscendo, abbiamo attraversato un filare di aiuole fatiscenti che, ci è stato spiegato, erano i prigionieri stessi a mantenere. Verso il fondo, ci è stata indicata quella curata da uno degli ‘Shankill Butchers’, lo squadrone della morte lealista.
Le guide offrivano, nel frattempo, informazioni e chiarimenti sulla vita quotidiana in prigione, tracciando una sottile linea fra i fatti e le diverse interpretazioni – repubblicane o lealiste – degli stessi.
Ma uno dei momenti più toccanti del tour è stato visitare l’ala ospedaliera della prigione, dove dieci giovani prigionieri repubblicani si lasciarono morire di fame: l’hungerstrike del 1981 fu il culmine della lotta per la reintroduzione dello status di prigioniero politico e per il miglioramento delle drammatiche condizioni di vita all’interno della prigione.
Quando siamo giunti sulla soglia della cella numero 8, dove Bobby Sands – primo prigioniero a morire – trascorse i suoi ultimi giorni di vita, solo alcuni sono entrati per qualche istante. Altri hanno preferito rimanere fuori: “troppo personale e privato”, mi ha spiegato una donna.
Proseguendo lungo il braccio, siamo passati davanti alla cella dove morì il 23enne Patsy O’Hara, membro dell’INLA (Irish National Liberation Army). La sensazione maggiore che si percepiva durante il tour è di profonda tristezza, quella che ogni persona coinvolta in questa vicenda deve aver provato.
Durante il resto della visita, siamo stati condotti attraverso la storia più recente: stabilizzata la situazione politica ed aumentati i cessate il fuoco, la chiusura della prigione è divenuta uno dei punti cardine del Good Friday Agreement; nel 2000, tutti i prigionieri erano stati trasferiti, ma la sorte del carcere è stata a lungo oggetto di disaccordo fra i nazionalisti e gli unionisti.
Al 2006 risale l’annuncio di un progetto che avrebbe fatto del sito un centro sportivo, ma quei piani sono saltati. Secondo Kyle Alexander, che attualmente ne detiene la responsabilità, la soluzione sta nella risoluzione del conflitto. ‘Abbiamo adesso l’opportunità di trasformare questo posto, e il mio compito è massimizzare il suo potenziale economico ma anche di riconciliazione. Se tornerete fra due o tre anni vedrete quello che noi stiamo progettando per essere un centro per la risoluzione del conflitto, dove si avrà l’opportunità di condividere con il mondo le nostre esperienze di costruzione della pace.’
Michael Wiscombe, uno studente che sta preparando la tesi per il master focalizzata sulla prigione, è uno di coloro che hanno preso parte al tour insieme a me, ed ha affermato: ‘Un centro per la risoluzione del conflitto è una buona idea, ma non necessariamente usando proprio l’edificio originale. C’è una considerevole possibilità che chi viene in visita lo veda come un santuario – consciamente o meno, succede.’
Ed è proprio questo che è cruciale per assicurare il successo di qualunque futura funzione attribuita a questo luogo. La donna il cui marito è stato internato qui ha ammesso che una parte di lei vorrebbe vederlo demolito, mentre l’altra parte è consapevole che invece debba rimanere come testimonianza e promemoria del passato.”

Natalie Lindo

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